Il RACCONTO: il cormorano che non poteva volare
Il racconto del vostro skipper pubblicato sul numero di Aprile di Bolina. E vai! penna e timone, è la mia vita…
Il cormorano
Il vento era calato all’improvviso, come se Eolo si fosse ricordato di un impegno importante e avesse smesso di soffiare. Eravamo di bolina fino a un attimo prima. Randa e genoa ridotti, sbandamento al limite, io e Bianca con le cerate fradicie e il Sirena Pedrick 40 che filava a 7 nodi e mezzo fendendo le onde con la sua prua d’altri tempi. “Chi ha spento l’interruttore del vento?” chiesi sorridendo ai due ospiti che facevano capolino dal tambucio, aspettando che passasse la buriana. “Tutto finito?” chiese timidamente Paolo. “Succede, in Sardegna – annuii -, succede dappertutto. E occhio che succede anche il contrario…Te ne stai a sorseggiare una birra, randa, motore e autopilota e… pam!, ti ritrovi steso da una raffica. Mai distrarsi in barca, marinaio…”. Paolo voleva prendere a tutti i costi la patente nautica, ascoltava tutto ciò che gli spiegavo con religiosa attenzione e io mi divertivo a giocare all’istruttore con lui.
I 20 nodi di poco prima si erano dissolti in una brezza leggerissima che stavolta arrivava al traverso e bastava a malapena per avanzare. Cagliari era davanti a noi, bianca, luminosa, bellissima. Ci aspettava per offrirci i suoi vicoli colorati, la sua gente, la sua vivacità marinara, il suo spirito di unico vero “porto di mare” della costa sarda, lontana mille miglia dalle atmosfere catalane di Alghero o dalla operosa quiete di Olbia. A un miglio dal porto accesi il motore, poi ammainammo le vele e puntammo dritti verso l’ingresso. Il tramonto stava cominciando a spennellare i suoi riflessi sull’acqua, ormai calma. Si sentivano solo rumori lontani, ovattati, come quando nevica e il mondo scivola nel silenzio. Qualche clacson, la sirena di una nave, le grida dei gabbiani. Null’altro se non lo scorrere del mare sulle fiancate, quel frusciare dolce e ritmato che diventa un rumore di fondo della tua vita in mare, e che pure continui a sentire distintamente, quasi a respirare, miglio dopo miglio. Ti abitui a quello, ti abitui ai gabbiani a prua che volano via all’ultimo minuto, ti abitui a sentire il respiro dei delfini prima di vederli. Ti rendi conto di acquisire anno dopo anno il tuo vero sesto senso, il senso del mare.
E quando qualcosa non quadra lo sai, si accende una spia, suona un allarme, e allora devi guardarti intorno. Che cosa c’era nella scena che non quadrava? Scandagliai la barca, l’albero, le sartie, il mare. Che cos’era quello, un gabbiano? “E quel cormorano?” disse Bianca andando verso la prua quasi avesse risposto ai miei pensieri. Anche a lei qualcosa non quadrava. “Bè, non ti sposti?” disse guardando il cormorano. Non si spostava proprio. A cinque metri accostai leggermente a sinistra e in quel momento il cormorano si spostò. “Noooooo, fermati, fermati!” gridò Bianca sporgendosi dal pulpito. L’uccello si stava spostando, ma era come prigioniero dell’acqua, come se nuotasse nella colla e pesasse trenta chili. Restava in superficie senza immergersi, spostava una grande quantità d’acqua e sbatteva affannosamente le ali. Non riuscivamo a capire, la prima cosa che venne in mente a tutti erano i gabbiani inzuppati di petrolio e condannati a non volare più.
Poi vedemmo la lenza. Una lenza lunghissima, sottilissima, che sembrava stritolare il corpo del cormorano. Lui si dibatteva, cercava di allontanarsi disperatamente dalla barca sbattendo la sola ala rimasta semilibera e trascinandosi dietro le zampe bloccate dalla lenza. “Accosta, accosta – gridava Bianca -. Così muore, dobbiamo prenderlo!”. Paolo e Laura assistevano alla scena senza sapere bene come partecipare. “Poverino”, “Incredibile” “Ma davvero vuoi prenderlo?”. Trascinata dal suo istinto animalista, Bianca stava per tuffarsi con cerata e salvagente ma sarebbe stato uno spavento ulteriore per il povero cormorano. “Il retino!” gridammo quasi all’unisono. Ci vollero cinque minuti buoni di coordinamento timone-motore-retino prima che il cormorano smettesse di lottare, lasciandosi cadere sfinito tra le maglie della rete. Alla fine, tutto tremante, era a bordo a dritta. Gli ospiti fuggirono a sinistra senza perdere di vista l’ultimo arrivato, al riparo dalla sua ala e dal suo becco. Dio quanto è grosso un cormorano visto da vicino. Misi in folle e chiesi a Paolo di avvisarmi se si avvicinava qualcuno, poi presi i guanti dal pozzo dell’ancora. Bianca tentava di tenere fermo il volatile. Era terrorizzato, e un po’ anche noi. Con i guanti fu più facile. Io lo tenevo, Bianca tagliava la lenza pezzo per pezzo, Paolo e Laura guardavano a bocca aperta. Il cormorano pian piano sembrava calmarsi, riuscivamo perfino a carezzarlo sulla testa. Non tremava più. L’ultimo pezzo di filo entrava nel becco, forse in gola c’era anche l’amo che il cormorano aveva inghiottito insieme all’esca sulla quale si era tuffato. Ma non ci fu il tempo per pensare a come proseguire il salvataggio. Con una mossa fulminea, l’uccello si riprese la sua libertà infilandosi sotto le draglie e riguadagnando il mare. Nuotò velocissimo per qualche metro, poi spiccò il volo. “E vai!” gridammo in coro mentre Paolo e Laura applaudivano meravigliati e sollevati.
Io e Bianca ci guardammo, sorridendo e con una goccia di orgoglio che ci inumidiva gli occhi. Restammo in silenzio, seguendo il volo libero del cormorano. Felici e grati per quella libertà restituita, e ancora sottosopra per quello che avevamo visto. Ingranai la marcia e ripresi la rotta, mentre in coperta fervevano commenti e pacche sulle spalle.
Il cormorano era scomparso verso il mare aperto. E Bianca giurava che prima di spiccare il volo si era voltato a guardarla.
Roberto Baldini
(pubblicato sul numero di “Bolina” di Aprile)